Teatro turco – Wikipedia – Karagöz. Dal teatro così da come tutte le arti possiamo apprendere delle tecniche per raccontare la nostra storia. Grazie ad essa trasformeremo i nostri problemi in narrazioni che tutti vorranno condividere, grazie al Problem Telling.
C’era una volta un cantastorie, ma non un cantastorie qualunque. Encho, questo era il suo nome, era famoso in tutto il Giappone per la sua bravura nel raccontare le storie. Era così commovente e coinvolgente che se raccontava di una guerra andava a finire che dovevi difenderti dalla spada degli avversari, dai loro colpi, perché finivi dentro al campo di battaglia anche tu. Un giorno Encho incontrò Yamaoka Tesshu, un laico che aveva quasi raggiunto la totale padronanza dello Zen. Questi gli disse: «Raccontami la storia del Bambino Pesca. Mia madre da bambino me la raccontava sempre così bene la sera che a metà del racconto stavo già dormendo. Raccontamela come sapeva fare lei». Encho non raccolse subito la sfida. Prese del tempo per prepararsi, parecchi mesi, e poi tornò da Yamaoka. Ma non appena iniziò quest’ultimo gli disse che non andava bene. Allora Encho tornò a studiare e ci provò di nuovo. Ma ogni volta Yamaoka gli diceva che non era bravo come sua mamma. Così passarono cinque anni di continue prove fino al giorno in cui Encho imparò a raccontare la storia come la mamma di Yamaoka Tesshu.
Encho non poteva, all’inizio, raccontare le storie come la mamma del maestro zen perché lui lo faceva per altre orecchie. Le mamme, infatti, narrano delle fiabe o cantano la ninna nanna ai loro bambini per risolvere un problema: farli addormentare. Il nostro cantastorie non ci riesce fino a quando non capisce, non definisce per bene che cosa deve ottenere con la sua arte. Un problema all’inizio è come il bruco che un po’ alla volta si trasforma in una splendida farfalla, cioè una bella storia che possiamo raccontare. A ben guardarlo questo bruco tiene in sé tutti gli elementi che lo porteranno a trasformarsi. Occorre solo un poco di tempo e un po’ di travaglio e il gioco è fatto, anche se all’inizio non ci crediamo.
Perciò dobbiamo far sì che i nostri problemi si trasformano in ciò che sono destinati ad essere: storie da raccontare agli altri. Ognuno di noi ha le sue storie. Sapete perché? Ognuno ha un problema e la storia nasce appunto da un problema. Pensiamo a Romeo e Giulietta: senza il problema dell’opposizione delle rispettive famiglie al matrimonio dove sarebbe la storia? Ma a parte questo grande classico del teatro, quante volte è capitato di leggere un racconto o un romanzo o di vedere un film e dire: ma le stesse cose capitano a me, questa storia avrei potuto raccontarla anche io!
Ora la buona notizia è che possiamo risolvere alcuni dei problemi della nostra vita, della nostra azienda e dei gruppi di cui facciamo parte attraverso il racconto del problema, il Problem Telling: l’arte che viene in soccorso all’inizio del nostro problema per definirlo e presentarlo a se stessi e agli altri (e sdrammatizzarlo). Una tecnica che ci aiuta soprattutto alla fine, quando il nostro problema, a questo punto reso interessante, va “venduto” a tutti coloro che devono mettere i soldi in un progetto, coloro che devono portarlo a termine, quelli che devono prendere una decisione in proposito. E qui il Problem Telling dà il meglio di sé fornendo prassi e strumenti per fare del nostro problema qualcosa di verosimile, seducente, convincente. Pensiamo a quanto bello, magnifico, ammaliante dovesse apparire l’enorme cavallo di legno lasciato da Ulisse fuori dalle porte della città. È con esso che i Greci risolsero il problema dell’assedio di Troia una volta per tutte.
Tama Leaver. Horse. Possibly Trojan! Il cavallo di Troia di Ulisse fuuno stratagemma, una splendida menzogna. Usare la retorica, se vogliamo, è mentire. Saggio è utilizzarla per risolvere problemi o, meglio, farli diventare qualcosa che anche gli altri vogliono avere.
Si badi che non sto affermando che una volta sorto il nostro problema, come ad esempio, il fidanzato o la fidanzata che se ne va e ci lascia dobbiamo correre a raccontare tutto alla nostra amica o al nostro amico del cuore, ai nostri confidenti, in qualche talk show televisivo. Questi ultimi, per quanto gli autori siano dei grandi professionisti di storytelling, non sono gli ambiti più propri del Problem Telling. E la pratica di metterci subito a spifferare tutto, a sfogarci, come si suol dire, non è quella che qui consiglio, sebbene possa essere utile per altri aspetti. Ricordate la storia zen di Encho? Impiegò ben cinque anni prima di riuscire nel suo intento. Anche noi dobbiamo prenderci del tempo per definire il nostro problema e capire come costruire da esso la nostra storia vincente. All’inizio dobbiamo capirci qualcosa di problem solving o, meglio ancora, di problem setting: la definizione del problema appunto. Quando Shakespeare trovò la storia popolare dei due ragazzi innamorati di Verona ha dovuto pensare a cosa raccontare e cosa tralasciare, come fa qualsiasi scrittore che deve capire quale dramma sta attraversando il protagonista. Se il bardo inglese non avesse capito quali erano le difficoltà, gli ostacoli, di Amleto, per fare un altro esempio, pensate che a secoli di distanza ci ricorderemmo di questo capolavoro? In qualsiasi racconto noi dobbiamo capire che cosa raccontare e a chi. Solo dopo penseremo al tipo di racconto da fare (un film, un romanzo, un fumetto, ecc.) e al genere: musical, documentario, poliziesco, giallo, ecc. Di questo si occupa lo storytelling, l’arte di raccontare le storie. Il Problem Telling interviene, invece, prima dello storytelling, è l’anello mancante del processo e possiamo paragonarlo al travaglio che fa il bruco per trasformarsi in una farfalla. Possiamo pensarlo come una sorta di processo di facilitazione in cui, per esempio, un’azienda che definisce i suoi problemi deve poi decidere le strategie, gli strumenti migliori per risolverli. Lo storytelling offre tutta una serie di prassi, di possibilità, di know how per raccontare le storie dell’impresa che, secondo Andrea Fontana, sono:
le parole e i discorsi con cui i pubblici interni definiscono e fanno vivere la cultura di un’impresa, da una narrazione frammentaria a una narrazione più organica;
i comunicati stampa con cui i vertici aziendali cercano di orientare l’opinione pubblica e il sociale d’impresa;
i company logo, la superficie levigata di un’automobile, un buon romanzo di Thomas Harris, il sapore amaro di un buon whisky.
Uno storyteller cerca di trovare elementi e strutture da narrare secondo gli obiettivi del management. Il Problem Teller, invece, aiuta prima di tutto a definire i problemi e poi a trasformarli in storie possibili. Possiamo pensare al Problem Teller come ad un’ostetrica che aiuta la partoriente dall’inizio di una gravidanza fino alla fine, quando l’aiuta a far venire al mondo il nascituro. Da un lato rassicura la donna, quindi è una sorta di terapeuta, e dall’altro l’aiuta a far convogliare tutto ciò che le succede in termini di sofferenze e patimento in ciò che rappresenta il punto più alto del processo: la nascita.
Magenta Rose. We All Have A Story To Tell. Tutti noi abbiamo almeno una storia da raccontare perché ogni giorno cerchiamo di affrontare le nostre difficoltà. Il successo dipende dall’abilità di raccontare ciò che stiamo facendo per risolverle.
Come facciamo ad avere delle storie che piacciano agli altri, in modo da avere ciò che ci occorre per risolvere i nostri problemi? Mettiamo di lavorare alla NASA e che abbiamo un grande progetto per le mani ma che ci mancano i soldi per realizzarlo. Che facciamo? Non ci vuole un genio per capire che per trovare i fondi dobbiamo raccontarlo questo bel progetto. Negli anni sessanta il team che stava lavorando per l’esplorazione umana della luna si trovò di fronte appunto questo obiettivo. E fu risolto con un discorso, ormai passato alla storia, che il presidente John F. Kennedy tenne alla Rice University nel 1962. Quasi alla fine disse:
Sono felice che anche questa università stia dando il suo contributo all’impresa dell’invio di un uomo sulla luna e che partecipi a questa grande missione intrapresa dagli Stati Uniti d’America.
“L’invio di un uomo sulla luna”: mai passaggio fu più efficace, illuminante, elettrizzante. Tutti quelli che ascoltarono questo discorso s’immaginarono poi la passeggiata, che avvenne anni dopo, di uomini in carne ed ossa sul nostro satellite. Questa immagine si fissò nella mente di tutti coloro che poi finanziarono entusiasti la missione. Alla fine, una bella storia, si riduce al suo elemento essenziale: un’immagine con tutto il suo grande potere evocativo. E questa grande lezione è diventata un classico per tutte le campagne di raccolta fondi, di qualsiasi tipo esse siano che risultano tanto più di successo quanto più sanno evocare storie e quindi immagini semplici ma potenti. Questo è Problem Telling perché si parte dal problema, si esaminano il disagio e le condizioni in cui si verifica e all’interno di questi elementi si enfatizza l’immagine più promettente per costruirci la storia che lo risolverà meglio.
Altre volte, poi, si può anche cominciare addirittura senza immagini, senza storia, soltanto dicendo quel che non va, anche se in modo motivato, preciso, professionale. Nell’ambito di prodotti e servizi grande Problem Teller è stato Nicolas Hayek, il geniale inventore degli orologi Swatch, quando ha pensato e commercializzato la mobilità urbana che si serviva di un veicolo rivoluzionario: la Smart. Hayek insieme a Helmet Werner della Mercedes-Benz ha fatto dell’ottimo Problem Telling. Esordì, infatti, con una serie di dichiarazioni sull’automobile di allora, prima del 1994, che giudicava ingombrante, inquinante, complicata, cara e prigioniera di una circolazione urbana paralizzata. Riuscì a porre un problema definendolo nei suoi aspetti più precisi e drammatici per certi aspetti. E poi ci raccontò tutta un’altra storia: si inventò non tanto un’auto, la Smart, ma piuttosto quello che potremmo chiamare lo smart way of life: la mobilità urbana ed extra-urbana integrata. A tutt’oggi nessun’altro nel settore delle automobili ha saputo produrre un’innovazione pari a questa. E su cosa si basa? Su quattro parole, in cui è condensata tutta la filosofia di questa innovazione, “Reduced to the max”, che comparirono sul materiale pubblicitario che fu prodotto a partire dal 1997, tre anni dopo le sue dichiarazioni shock. Evidente che il suo inventore aveva in testa i suoi orologi: partiva dal grande design innovativo, dall’eleganza, dalla ridefinizione degli spazi che aveva già caratterizzato i suoi famosi orologi.
Di certo Hayek, come Encho, ha cercato e trovato il suo zen, a partire dal quale ha saputo costruire la sua storia di successo. Un’altra bella storia, un altro esempio illuminante di Problem Telling ce lo ha offerto Luca di Gesù, un panettiere di Altamura (Bari) che è riuscito a far concorrenza alla locale McDonald’s che è stata costretta a chiudere il punto vendita. Nel background di questo panettiere c’è la tradizione del forno da generazioni ed una stretta relazione con i gusti e le preferenze della gente del posto. Perciò non ha avuto difficoltà nello sfornare il pasticcio, più buono degli hamburger e persino meno costoso. Ma il suo punto di forza non è stato nel cibo di qualità. Noi tutti sappiamo fare dei pani più buoni di quelli che mangiamo al McDonald’s. La differenza è stata nel marketing o, meglio ancora, nel rovesciare il problema che aveva e cioè i pochi clienti all’inizio in una storia affascinante. Ha saputo interpretare quelle emozioni, quelle sensazioni olfattive e visive che i suoi concittadini desideravano e rispetto alle quali preferivano la sua focacceria invece del negozio della multinazionale. Ha costretto, alla fine, alla chiusura gli americani e questo è diventato un caso internazionale al quale prima si sono interessati francesi delle piccole «boulangerie» in lotta contro la baguette industriale. Poi l’impresa, ora in corso, di esportare a New York le sue produzioni e infine l’interesse del mondo del cinema con il film-documentario Focaccia Blues diretto da Nico Cirasola. Luca Di Gesù è un semplice panettiere però ha saputo usare il plot narrativo, se ci pensate, di Ulisse e Polifemo, del piccolo uomo intelligente che sconfigge il gigante che lo aveva imprigionato.
Quest’ultima storia sta a dirci che tutti possiamo avere successo con i nostri problemi, senza grandi sforzi. La soluzione sta nel problema stesso. Anzi, ciascun problema sorge proprio con l’intento di andare oltre, è una sorta di trampolino di lancio. Quel che ci blocca non è il problema ma la paura, la pigrizia, l’ansia. Quel che dobbiamo fare è approfittare del problema, guardarlo nei suoi aspetti, vedere cosa ci offre e usarlo. Per ricapitolare, quindi, ecco una breve lista per passare dal disagio al racconto, dalla preoccupazione (ingiustificata) al successo:
definiamo il nostro problema nei suoi componenti: quando si verifica? Dove? In quali circostanze?
Individuiamo tutti gli attori che vi sono coinvolti: chi sono? Cosa fanno? Come si muovono? Come la pensano?
Mettiamo su carta gli obiettivi che abbiamo. Dove vogliamo arrivare? Che cosa vogliamo realizzare? Come ci immaginiamo fuori dal problema? Immaginiamo e magari scriviamo qualche riga sullo scenario oltre il problema.
A chi dobbiamo rivolgerci? A chi dobbiamo parlarne? Dove si trovano queste persone e quali linguaggi dobbiamo utilizzare per parlare con loro? Se sono dei produttori cinematografici, ad esempio, dovremo confezionare uno speech perché ci diano retta. Se sono degli imprenditori potremmo realizzare un business plan. Se sono dei cittadini che dobbiamo educare alla raccolta differenziata, per esempio, possiamo pensare a dei manifesti, a una brochure, a dei video, ecc.
Tiriamo fuori delle immagini-chiave del nostro problema e dello scenario al di fuori di esso: facciamo finta di essere dei fotografi incaricati di illustrare una determinata situazione per un’importante rivista come il National Geographic ad esempio o altre;
Ora guardiamo tutte le fotografie che abbiamo realizzato. Quale ci ispira di più? Scegliamo le immagini migliori come se dovessimo fare una presentazione davanti a un pubblico.
Possiamo legare queste immagini in una storia del tipo: ecco il nostro eroe con il suo problema, che cosa fa per risolverlo, quali ostacoli incontra, come fa ad avere successo.
Immaginiamo di essere ora i registi di un film: da dove vogliamo che cominci? Che cosa vogliamo che accada? in quali ambienti immaginiamo che la storia avvenga? Che cosa dobbiamo far assolutamente vedere agli ipotetici spettatori?
Scriviamo ora il nostro progetto come se fosse un soggetto cinematografico: chi è il protagonista? Chi l’antagonista? Che conflitto hanno? Dove e quando si scontrano? Qual è l’esito?
Torniamo al punto 5 del nostro elenco e perfezioniamo questo processo con gli esperti del caso. Di chi abbiamo bisogno? Di esperti di grafica? Di un webmaster? Di un disegnatore di fumetti? Costruiamo la squadra migliore che ci aiuti a terminare il nostro lavoro: raccontare la storia che abbiamo fin qui costruito.
Non preoccupiamoci molto in che modo racconteremo la nostra storia, sotto quale forma. Sarà essa stessa a suggerirci le modalità migliori. Alle volte, se avete un blog, può essere un semplice post come ho fatto io quando ho raccontato la storia della mia guarigione dalla confusione: questa volta sapevo che i miei interlocutori erano nei social network a cui sono iscritto e quindi ho solo dovuto linkare il post. Per il resto potete provare da soli ad applicare quanto vi ho appena suggerito.